Messa per la nuova Santa Vincenza Maria Poloni
(Col 3,12-17; Sal 144; Gv 15,9-17)
Chiesa di Santa Maria in Traspontina in Roma, lunedì 20 ottobre 2025
“Rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità” (Col 3,12). È molto poetico il verbo usato nel brano della lettera ai Colossesi appena ascoltato: rivestirsi di sentimenti. È come se i sentimenti fossero un abito da indossare, qualcosa che aderisce alla pelle e con cui si va incontro al mondo, qualcosa che dice di noi in modo profondo. Vincenza Maria Poloni comprese intimamente questo mistero del rivestirsi di affetti. Lo interiorizzò così bene che il sentimento della misericordia divenne il suo habitus, cioè non solo un vestito da indossare o cambiare ogni giorno, ma un’abitudine, un modo di essere, un atteggiamento spontaneo, intimo, personale. Quest’abito metaforico era per lei anche qualcosa di molto materiale: le testimoni raccontano che sapeva “medicare le piaghe con mano leggera, cambiar la biancheria con tutta modestia, ed aveva occhio ai rattoppi onde non avessero a molestare le povere ammalate”. I rattoppi. Vorrei soffermarmi su questo dettaglio luminoso. In un mondo di grandi gesti eroici, Vincenza Maria Poloni si preoccupava che i rattoppi della biancheria non graffiassero la pelle già martoriata delle persone malate. Questa è la tenerezza attenta di cui parla Paolo: un’intelligenza del cuore che sa vedere l’invisibile, che trasforma il dettaglio minimo, ma estremamente essenziale, in sacramento di cura. Una tenerezza che la Poloni matura nelle mura domestiche che “dovettero assumere presto quasi l’aspetto di un piccolo ospedale”, dove ella fu seconda madre per la schiera di nipotini, infermiera per le cognate malate, pilastro economico per la famiglia.
“Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici” (Gv 15,15a). In un mondo costruito su gerarchie e sottomissioni, Gesù proclama l’amicizia come nuova architettura del Regno. Vincenza Maria Poloni visse con questa architettura e ci riuscì perché conosceva l’amore che si stende su coloro che lo riconoscono e che dà una nuova forma al mondo rovesciando i potenti dai troni, confondendo i superbi, rimandando i ricchi a mani vuote, nutrendo gli affamati, soccorrendo i popoli. Soggiornava stabilmente in questo orizzonte dove l’amore circola e raggiunge ogni angolo della terra. Il comandamento che riassume tutto è l’invito ad amarci reciprocamente.
“Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16b). Che cosa vuol dire rimanere? In un tempo come questo è difficile rispondere. Certamente solo ciò che si trasforma è capace di attraversare il tempo. Nelle inevitabili metamorfosi, c’è però una condizione da rispettare: la carità. Ed è proprio questo che leggiamo nel testamento di Vincenza alle sue figlie. Si tratta di poesia pura nella sua essenzialità: “Vi raccomando per ultimo testamento del mio affetto per voi, una sola cosa, la carità: fate che essa regni tra voi”. Una sola cosa. Come Gesù a Marta affannata: una sola cosa è necessaria. Non strategie pastorali, non piani quinquennali, non organigrammi perfetti. La carità. E aggiunse la Poloni con lucidità profetica: “Finché durerà la carità, l’Istituto si manterrà in piedi”.
Ascoltiamo la voce di santa Vincenza e andiamo avanti sulle sue orme che hanno lasciato una traccia profonda nella vita della Chiesa e nella vita di tanti uomini e donne.
