Martedì della XXVIII per annum (Ingresso a Monteforte di don Giuliano Zanini)
(Rm 1,16-25; Sal 18; Lc 11,37-41)
Monteforte, martedì 14 ottobre 2025
“Un fariseo lo invitò a pranzo. Gesù andò e si mise a tavola”. Gesù accetta l’invito a tavola, ma poi si mette subito a provocare. Infatti non compie le abluzioni rituali e provoca lo sconcerto del fariseo che l’ha invitato con tanta cortesia. “Fariseo” vuol dire “separato” proprio perché gli appartenenti a questo movimento osservano scrupolosamente un insieme di pratiche che li mantengono in uno stato di purezza. Come del resto facevano anche i sacerdoti che in vista del tempio si lavavano attentamente e si astenevano da ogni contaminazione profana. Gesù va diritto al cuore del problema. Per Lui la perfezione millantata da questi uomini pseudo-religiosi non si basa sulle abluzioni esteriori, ma sulla coscienza che è interiore. Da questa prospettiva si capisce che cosa è secondario e che cosa invece è essenziale. In tal modo Gesù fa eco alla grande tradizione profetica per la quale l’impegno essenziale dell’uomo ha come due vettori: la giustizia e l’amore di Dio. Scrive papa Leone XIV nella recentissima Dilexi te (n. 36): “«Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri» (papa Francesco). In merito abbiamo abbondanti testimonianze lungo la storia quasi bimillenaria dei discepoli di Gesù”.
“Allora il Signore gli disse: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno?»”. Così il Maestro chiarisce l’errore di questa falsa perfezione che definisce puro e impuro a partire dall’esterno, mentre è dal cuore che si decide la qualità delle nostre scelte pure o impure, cioè ispirate alla giustizia o alla prevaricazione. Tutta la lettera ai Romani in fondo intende affermare che Gesù supera ogni distinzione tra cibo puro e impuro. Perché ciò che decide della qualità del nostro agire è all’interno. Semmai l’esterno ne è una sorta di esemplificazione. Ma mai scambiare il dentro con il fuori.
“«Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro»”. Il vocabolo greco eleemosyne si traduce in termini ebraici con “giustizia”. In altre parole l’elemosina rientra nell’ambito della giustizia, anche se è sostenuta dall’amore di misericordia. E in una società dove i rapporti sono essenzialmente primari come in quella antica, l’elemosina era una forma concreta di distribuzione dei beni. Anche oggi il dramma della nostra società non è la ricchezza in termini assoluti, ma la sua equa distribuzione. In effetti, la povertà non è una scelta e nemmeno un destino. È una questione strutturale. “È pertanto doveroso continuare a denunciare la ‘dittatura di una economia che uccide’ e riconoscere che ‘mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice’” (DT, n. 92).
