Questa mattina, venerdì 25 luglio, alla Casa madre dei comboniani si è tenuto l’incontro dei giovani europei sulla comunicazione, con la partecipazione del vescovo Domenico.
Nell’intervento, mons. Pompili ha parlato della rassegnazione e della speranza che possiamo o meno veicolare attraverso il linguaggio e la comunicazione, soprattutto mediatica, strumenti da utilizzare per costruire la pace. Riprendendo le recenti affermazioni di Papa Leone XIV, che invita ad una “comunicazione disarmata e disarmante“, ha tracciato tre direzioni fondamentali per fare del linguaggio strumento di un cambiamento, che inciti i cuori all’azione per un mondo “più giusto e pacifico”:
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La purificazione della comunicazione: L’invito a purificare la comunicazione da odio, pregiudizi e aggressività non è più solo una questione di stile comunicativo, ma diventa un contributo concreto alla pace mondiale. Ogni parola di odio alimenta i conflitti, ogni parola di riconciliazione li mitiga.
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L’attenzione alle vite escluse: L’importanza di una comunicazione “capace di ascolto, capace di dare voce a chi non ha voce” si collega direttamente alla dottrina sociale della Chiesa e alla sua attenzione privilegiata per i poveri e gli emarginati.
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La responsabilità sistemica dei media: Papa Leone XIV ha riconosciuto esplicitamente le sfide che i media affrontano in tempi di conflitto e disinformazione, sottolineando la loro responsabilità nel “narrare i conflitti e le speranze di pace, le ingiustizie e la povertà”. Ha inoltre richiamato l’attenzione sulla libertà di espressione e sulla necessità di proteggere i giornalisti che operano in contesti difficili.
In una società pervasa da paura, diffidenza e giudizio alimentati da “linguaggi che uccidono”, occorre tornare al monito di Gesù:
“Nel Discorso della Montagna non parla solo dell’omicidio fisico, ma di tutte quelle parole che uccidono la dignità, la fiducia, la possibilità. Il linguaggio della rassegnazione è un linguaggio che uccide perché uccide la fiducia nel futuro, la creatività, la solidarietà, la responsabilità personale, la dignità dell’altro.
Ma c’è una strada diversa: una narrazione autenticamente umana, una comunicazione in termini di prossimità, una parola capace di benedire. Ciò vale anche per il mondo digitale, chiamato a creare connessioni autentiche invece che semplice visibilità, a privilegiare l’ascolto della persona concreta dietro lo schermo, a rallentare quando serve per permettere a una storia ferita di emergere. È quello che trasforma hashtag in comunità di cura, che usa i commenti per accompagnare invece che per giudicare, che sceglie di amplificare voci silenziate invece che rumori già assordanti.
Se vogliamo comunicare con speranza, dobbiamo prima imparare a pensare con speranza, a guardare con speranza, a vivere con speranza.”
Tra i partecipanti all’incontro, anche alcuni giovani egiziani, accompagnati dal vicario diocesano.
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