Una casa dove nessuno è di troppo – 40anni della Fondazione Exodus

Allegato: 40anni di EXODUS

40 anni di Exodus. Tra passato e speranze per il futuro
Una civiltà di minoranza: dalla logica dello scarto alla casa ospitale

Sala civica Giuseppe Garonzi della Seconda Circoscrizione in via Quinzano a Verona, sabato 5 luglio 2025

C’è una pagina di don Antonio Mazzi, che mi ha molto colpito. Si trova nel libro Il dialogo del sorriso, ed è una pagina che si apre con una domanda: scartini? Come nel gioco delle carte, gli scartini non valgono nulla e, soprattutto, non possono prendere nulla. Riporto il testo per intero:

“Scartino… da scarto. Ho fatto un po’ di giri sui vocabolari, e mi sono divertito nell’apprendere l’ampiezza di questo nome/aggettivo. Indicherebbe una serie di condizioni economiche, politiche, lavorative, sociali, giocose, culturali. Facciamo l’elenco, così ci capiamo meglio: precario, difettoso, inetto, carente, rifiutato, rottame, relitto, ritaglio, scampolo, avanzo, fragile, scorza, inutile, senza valore, scadente. Ognuno di noi, almeno una volta nella sua vita, si è sentito uno scartino, un escluso, un qualcosa di diverso rispetto al resto, un pezzo fuori posto e senza valore. Ora si parla tanto di diversità e di inclusione, ma i fatti raccontano che siamo ancora lontani dal sentire lo scartino la parte mancante di un tutto, piuttosto che il pezzo inutile. Già da anni fa il mio mestiere – passatemi il termine – di «educatore diverso» è uno specialista nel recupero degli oggetti perduti, o meglio dei soggetti perduti, degli irrecuperabili, dei borderline, dei pezzi esuli dalla maledetta catena di montaggio della società dei normali. Per la società che conta, ripeto, lo scartino è un pezzo riuscito male, con qualche difetto e che per la macchina informatica e programmata deve venire scartato. Da più di trentacinque anni vivo tutti i giorni con gli scartini, con i ragazzi «diversi», che però avevano e hanno ancora bisogno di percorsi diversi, più semplici, meno intellettuali, meno formali… ma con un nostro peccato di fondo: loro sono i diversi e noi i normali. Ora, però, siamo obbligati a fare un triplo salto mortale e pensare che gli scartini sono più normali dei normali. La società liquida si è liquefatta e ha obbligato i cosiddetti normali a crearsi una bardatura da subacquei, talmente idrorepellente da sostituirsi alla pelle, al cervello, al cuore. Per cui il diverso è diventato il sopravvissuto, per cui non saranno più solo «loro» gli scartini, ma noi! Chi decide chi è davvero uno scartino e chi non lo è? E chi decide che essere normali sia meglio o peggio di essere uno scartino? Gli scartini ci aiutano a inventare una civiltà di minoranza: dalla civiltà delle masse, dei potenti, dei padroni, dei professori, delle ideologie, alla civiltà dell’uomo fragile, cioè di un uomo che ha bisogno della fragilità dell’altro. E, ricordatevi, Dio ha fatto la storia con gli scartini” (Don Antonio Mazzi, Il dialogo del sorriso).

In queste parole c’è tutto ciò che ci tiene insieme in occasioni come questa:

  1. l’attenzione per le vite scartate

Esistono bambine e bambini che nascono già con l’etichetta dell’esclusione. Nascono in contesti di povertà, abbandono, marginalità. Nascono con disabilità in una società che ancora fatica a riconoscere il valore della diversità. Nascono in famiglie distrutte, in quartieri dimenticati, in sistemi che li catalogano prima ancora che abbiano imparato a camminare. Nascono in luoghi di guerra. Queste vite portano il peso di uno scarto che non hanno scelto, di una condizione che precede la loro stessa coscienza. Ma proprio qui si manifesta la scandalosa preferenza di Dio per gli ultimi: ciò che il mondo considera scarto, Dio lo elegge come suo prediletto.

La sensazione di essere scartini può colpire chiunque nei momenti di fragilità: la perdita del lavoro, la fine di un amore, la malattia, l’invecchiamento, il fallimento di un progetto. Improvvisamente ci si ritrova fuori dalla corsa, inadeguati rispetto ai ritmi frenetici di una società che non ammette pause. È in questi momenti che scopriamo quanto sia sottile la linea che separa l’inclusione dall’esclusione, quanto sia fragile la nostra appartenenza al mondo di coloro che ci ostiniamo a definire “normali”. È qui che nasce la compassione vera, quella che riconosce nell’altro la propria possibile condizione.

  1. La domanda autenticamente “cattolica”: chi ci manca?

Essere cattolici significa essere “secondo il tutto” (kath’holon in greco). Questa è allora la giusta domanda da fare: chi ci manca quando giudichiamo la storia? Chi non è presente nei nostri discorsi? Chi resta invisibile nelle nostre strade? Quando progettiamo le nostre città, i nostri spazi, le nostre comunità, chi stiamo dimenticando? Quando commentiamo il vangelo, chi resta fuori? La misura della nostra cattolicità non è data da quanti fedeli portiamo nelle nostre chiese, ma da quanti ancora mancano nel nostro orizzonte d’umanità. È una domanda che ci inquieta, perché ci costringe a guardare oltre le nostre comodità, oltre i nostri circoli, oltre le nostre sicurezze.

  1. Dio fa la storia con gli scartini

Nel cristianesimo, Dio si presenta come il cercatore instancabile di ciò che è perduto e che fa festa quando lo ritrova. Non è un Dio dei forti e dei vincenti, ma di chi è caduto lungo la strada. È il pastore che lascia le novantanove pecore per cercare quella smarrita, la donna che rovescia la casa per una moneta perduta, il padre che scruta l’orizzonte aspettando il figlio che ha sbagliato. Questo Dio non si accontenta di salvare alcune vite: le vuole tutte. Non fa selezione di persone, si legge negli Atti degli Apostoli. Ed è per questo che il vangelo esalta il margine. Si tratta di inventare una civiltà di minoranza, cioè di assumere quello che potremmo chiamare “canone minore” della storia.

  1. Inventare una civiltà di minoranza

Non si tratta di tornare indietro, ma di immaginare un futuro diverso. Una civiltà di minoranza non è una civiltà di perdenti, ma una civiltà intenzionalmente sbilanciata verso valori di solidarietà anziché verso quelli del narcisismo. È una civiltà che privilegia la cura alla competizione, la fragilità condivisa alla forza individuale, l’accoglienza al merito, la gratuità al profitto. È una civiltà che si costruisce dal basso, dalle periferie, dai margini, perché ha capito che è lì che si nasconde il seme del nuovo mondo possibile. In una società che si è blindata dietro corazze di efficienza e produttività, chi mantiene la capacità di sentire, di soffrire, di essere vulnerabile, rappresenta paradossalmente la “normalità” che non riusciamo a vivere e che riguarda una legge divina (“norma” altra) secondo la quale siamo chiamati a essere sorelle e fratelli tra noi e a prenderci cura insieme del creato.

La nostra speranza oggi: una casa comune senza scarti

In un tempo di crisi delle grandi narrazioni e delle ideologie, la nostra speranza non sta in progetti grandiosi ma in questa opzione fondamentale: scegliere di stare dalla parte degli scartini perché la partita si gioca onestamente solo così. Lì si gioca il futuro dell’umanità sulla terra. È una speranza che si nutre di piccoli gesti quotidiani, di relazioni autentiche, di comunità che sanno fare spazio, di istituzioni che si ripensano a partire dagli ultimi.

Questa civiltà di minoranza non è triste. Come ci ricorda ancora don Mazzi, «chi educa deve lavorare fino a creare un clima di felicità». Cerchiamo allora percorsi di benessere, di giustizia, di pace da condividere.

Perché questo accada, siamo tutte e tutti noi a dover coltivare il desiderio di un mondo senza scarti né scartini, dove tutte le vite si sentono a casa. Cerchiamo però di maturare, anche come adulti. Ciò non significa diventare seri, ma dilatare il nostro desiderio in modo che diventi una dimora sufficientemente larga per ospitare il desiderio di questa generazione fragile e di farlo fiorire secondo il bene.

Immaginiamo dunque il mondo come una casa dove nessuno è di troppo, dove ogni fragilità trova il proprio posto, dove la diversità non è tollerata ma celebrata come segno della fantasia di Dio. Una casa dove l’ultimo arrivato è il primo ad essere accolto, dove le cicatrici diventano finestre di luce, dove nessuno deve fingere di essere diverso da quello che è.

Forse è questo il miracolo di cui abbiamo bisogno: non la sparizione della fragilità, ma la sua trasformazione in solidarietà. Non l’eliminazione degli scarti, ma la scoperta che in ogni scarto c’è un tesoro nascosto. Non la costruzione di una società perfetta, ma l’arte di abitare insieme le nostre imperfezioni.

Gli scartini ci stanno insegnando che un altro mondo è possibile. Diventano i nostri maestri di vita. Sta a noi decidere se vogliamo imparare da loro.

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