Prefazione al libro di Alberto D’Auria: “I due volti della sofferenza”

Allegato: Prefazione Libro D’Auria

Prefazione al volume di Alberto D’Auria, I due volti della sofferenza. Un incontro tra psicologia e religione per il benessere dell’uomo, Sugarco Edizioni, Milano 2025, pp. 9-13.

             In queste pagine, lo psicologo e psicoterapeuta Alberto D’Auria porta la nostra attenzione sull’esperienza della sofferenza umana nelle sue diverse forme e intensità, e ci accompagna lungo la storia delle nostre teorie e pratiche di accompagnamento e di cura. Comprendiamo così che ciascuna vita è diversa dall’altra e che per fortuna non tutte si trovano a patire gravi drammi o veri e propri traumi, ma impariamo anche che nessuna può sentirsi o considerarsi immune dal dolore. Si viene e si resta al mondo nella vulnerabilità, dunque, seppure in una incerta e imprevedibile trama di problemi e fragilità singolari.

Quella della sofferenza è un’esperienza complessa e difficilmente confinabile, suggerisce D’Auria. Quando si presenta come dolore fisico, per esempio, essa si estende alla psiche e ne condiziona pesantemente l’umore; la stessa dilatazione si riconosce nel movimento inverso, quando tendiamo a somatizzare determinati sentimenti e stati d’animo negativi come tristezza, paura, panico. Inoltre, la sofferenza ha fisionomie, intensità, momenti, motivi ed esiti differenti, per cui occorrono delicatezza e competenza.

In questa cornice, può colpire che nel titolo vengano evocati solo due volti della sofferenza. Leggendo, però, si comprende il senso della formulazione: non è il sintomo di una semplificazione indebita, ma l’indice di un punto prospettico preciso. D’Auria, infatti, è preoccupato della distanza sempre più grande tra la psicologia e la religione, che dovrebbero invece procedere in sinergia e in alleanza quando si tratta di guarire l’umano sofferente. Due, allora, è solo la cifra che denuncia la netta separazione – avvenuta da tempo e considerata ovvia e insanabile oggi – tra le discipline e i soggetti che si occupano del benessere/malessere della mente, e le discipline e i soggetti che si occupano del benessere/malessere dello spirito.

Che la complessità rimanga un’istanza da non tradire lo si intuisce nel prosieguo della lettura, quando il fronteggiarsi dialettico tra psicologia e religione si arricchisce di una giusta attenzione al versante biologico dell’esperienza e compaiono le neuroscienze, saperi che conoscono bene l’intreccio tra natura e cultura, tra cervello e mente, tra azione e contemplazione, tra sé e alterità. Le neuroteologie, in particolare, mostrano come le pratiche di meditazione o di preghiera possono tranquillizzare e rinforzare il cervello umano alle prese con la sofferenza, offrendosi come ottimo coadiuvante nei percorsi terapeutici.

Indubbiamente questo è uno scenario ancora tutto da costruire. In un dialogo con l’antropologia biblica – nella quale l’essere umano è corpo, psiche (o mente) e spirito (o anima) – l’autore richiama il costante rischio riduzionista che caratterizza la nostra cultura, nella quale ogni specialista si concentra su un frammento della realtà, prigioniero nei propri confini e metodi disciplinari, senza mai confrontarsi con altre prospettive o pratiche. Le conseguenze sono spesso disastrose e sono ben riconoscibili nella nostra esperienza ordinaria: la medicina segue i confini degli organi e si attiene alle regole degli specialismi, la psichiatria patisce una continua contraddizione tra chimica e parola, la teologia giace spesso ai margini del sapere a causa della sua stessa disincarnazione.

Con queste sottolineature, Alberto D’Auria non intende sovrapporre psicologia e religione, ma mira piuttosto ad aprire dei passaggi proprio “tra” queste diverse discipline. In quello spazio inesplorato potranno incontrarsi davvero le storie delle persone, i loro legami vitali, le loro fatiche e le loro perdite, ma anche le loro speranze, le pratiche terapeutiche a loro disposizione e soprattutto quella promessa di vita che il Dio di Gesù Cristo non si stanca di custodire come «luce della salvezza» e come resilienza verso una cultura dello «scoraggiamento».

Non dovrà più accadere quello che è successo ad Anneliese Michel, morta a 24 anni nel 1976 dopo 65 esorcismi, che D’Auria elegge a simbolo di tutte le vittime che hanno perso la vita per l’autoreferenzialità che caratterizza i saperi contemporanei e, soprattutto, per la mancanza di confronto e di dialogo tra persone esperte nella cura della mente/psiche e persone esperte nella cura dello spirito.

Secondo D’Auria, questi riduzionismi sono il frutto velenoso di una cultura contemporanea secolarizzata nella quale l’attenzione alla realtà e ai suoi disagi è stata vissuta come totale rimozione del riferimento a Dio e al Maligno. Solo ora ci si rende conto di come questa postura razionalistica abbia soffocato la profondità dell’esperienza umana e abbia reso inservibili alcune importanti chiavi d’accesso al dolore, interrompendo possibili vie di guarigione.

La proposta di questo libro è quella di un dialogo transdisciplinare che prenda le mosse dal terreno comune di religione e psicologia, cioè dal loro fine ultimo: la «serenità e salute» di ogni essere umano destinato a fiorire. Con lo sguardo fisso al bene condivisibile, allora, la strategia di resilienza cristiana potrà forse emergere in tutta la sua potenza simbolica e pratica, e offrirsi come aiuto effettivo a chi patisce o cura la sofferenza. Questa strategia si nutre dell’amore che resiste e che non viene meno neanche nella crisi, di quell’affetto fedele che si fa dono ostinato e gratuito anche quando c’è di mezzo una croce, di quella disponibilità a rimanere solidali anche quando il negativo minaccia la vita.

La sintesi del Vangelo, infatti, porta a sentirsi esseri amati nonostante tutto, perché la buona notizia è che Dio libera dal male e che comunque il male non può avere mai l’ultima parola nella storia. Non è solo pratica, è anche luce sul senso della vita. Su questo D’Auria è molto vicino a Viktor Frankl, lo psicologo che non ha smesso di essere tale nemmeno nel lager in cui è stato internato. Come lui, anche l’autore ritiene che nell’esperienza della sofferenza non si tratta solo di guarire ma anche di ritrovare un significato ai propri giorni, una vocazione dei propri talenti, una destinazione della propria storia. L’importante è mantenere l’unità dell’essere umano, perché ogni vita è una tessitura intricata fatta di nodi biologici, psicologici, affettivi, spirituali, sociali, culturali.

Tra questi terreni comuni da dissodare insieme, nelle nostre diverse competenze psicoterapeutiche, mediche e spirituali, c’è l’esperienza del perdono. Sentirsi inchiodati o inchiodare qualcuno al proprio passato colpevole vuol dire smettere di vivere, di sognare, di esercitare un’autentica libertà. Tutte le religioni e anche molti saperi laici ne danno conto: l’esperienza del perdono è una forma di rinascita dell’essere. Non si tratta di dimenticare, ma di restituire possibilità a sé o alle altre persone. Si tratta di una memoria differente, che sa tutto ma che disinnesca il potere paralizzante di certi eventi. Questa convergenza tutta antropologica sul benessere donato dal perdono indica che molto si può fare, insieme, quando la vita è ferita e ha bisogno di riaprire il proprio futuro.

Il testo di Alberto D’Auria, dunque, ci accompagna nella profondità della sofferenza e ci aiuta a vedere gli intrecci dei percorsi di cura psicologici e spirituali. Se secondo un celebre proverbio africano ci vuole un intero villaggio per educare un bambino, D’Auria sembra suggerirci che ci vuole un’intera comunità anche quando si tratta di guarire e di curare le sofferenze, i traumi, i disturbi e le ferite delle persone piegate dalla vita. Nessun approccio può essere tutto.

 

condividi su