L’inquietudine salutare – XXI domenica per annum

Allegato: l’inquietudine salutare – XXI domenica per annum

 

XXI domenica per annum

(Is 66,18b-21; Sal 117, Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30)

Sporting Hotel in San Zeno di Montagna, sabato 23 agosto 2025

Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme”. Come è noto Luca struttura il suo racconto attorno al viaggio verso la Pasqua. Il Maestro non è mai fermo, passa ovunque, senza però mai perdere di vista la sua meta: Gerusalemme. Colpisce questa inquietudine di raggiungere tutti e allo stesso tempo questa chiarezza sull’esito del suo camminare. Per noi che vagabondiamo qua e là è una provocazione non da poco: va bene viaggiare, muoversi, collezionare esperienze, ma senza perdere mai di vista il senso di marcia della vita che è un procedere verso Dio. Cioè, verso la vita eterna, giacché qui tutto è di passaggio appunto.

In tale contesto, si fa strada la richiesta posta dai giudei: “Sono pochi quelli che si salvano?”. È una domanda che svela l’atteggiamento dei suoi contemporanei che avevano chiaro l’esito del cammino, ma erano dilaniati dalla preoccupazione sul numero. Nei circoli giudaici ci si divideva al riguardo. Si andava dalla sentenza rabbinica: “Tutti gli israeliti parteciperanno al mondo futuro” (Sanh X, 1) all’apocrifo giudaico IV Esdra che diceva: “Sono di più coloro che si perdono, che non coloro che si salvano, come la corrente è più grande di una goccia” (IX, 15). Il Maestro sposta l’attenzione dal ‘quanto’ al ‘come’ e mette al centro la porta che è aperta, ma stretta. Così introduce la persuasione che non si entrerà in massa, ma uno alla volta. Non si può negare che questa è la condizione del cristianesimo oggi. Non si crede per appartenenza culturale o semplicemente perché tutti lo fanno, ma solo per una scelta personale rischiosa ed esigente. Per secoli è invalso il “cuius regio eius et religio”, cioè si convertiva il re e dietro a lui tutti gli altri. Per secoli un certo conformismo sociale ha indotto alla convinzione che “non possiamo non dirci cristiani” (B. Croce). Ma oggi non è più così. Ed è un bene perché la fede costringe ad una scelta personale che non ci isola, ma richiede di volere quello che si crede. Il discrimine sta in questa libertà e insieme nella giustizia che ne promana. Ciò che decide di noi non è la semplice appartenenza (“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”), ma il praticare la giustizia. Ciò significa che “molti di quelli che sembrano fuori sono dentro e molti di quelli che sembrano dentro sono fuori”, come dice Agostino. Ecco perché alla fine dentro si ritrovano quanti, provenendo da ogni dove, hanno vissuto come Dio vuole. E fuori quanti, pur professando la fede, non sono stati conseguenti. E allora si capisce: “Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi”. Vi è una postura richiesta dalla relazione con Gesù: l’umiltà, la non presunzione di sé e la non pretesa. Chi dà per scontata la sua adesione a Cristo senza una verifica del proprio stile di vita rischia di essere un presuntuoso che non crede, ma crede di credere. Solo la salutare inquietudine di chi vive una relazione sempre in divenire e tale da richiedere lotta e sforzo mette al sicuro dall’illusione di una fede che non è autentica. La porta è stretta perché non ci si entra per caso.

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