La libertà di educare alla libertà – Anniversario fondazione scuola di Castelletto di Brenzone

Allegato: La libertà di educare alla libertà

La libertà di educare alla libertà
(La scuola cattolica di Castelletto a 75 anni dalla sua formazione)
Sala Nascimbeni in Castelletto di Brenzone, sabato 17 maggio 2025

Introduzione: ripensare la libertà educativa

Quando parliamo di “libertà di educare” spesso cadiamo nella trappola di un’impostazione puramente apologetica, come se si trattasse solo di trasmettere determinati contenuti o valori a tutti i costi, in un contesto che li rifiuta. Ma oggi vorrei invitarvi a considerare una prospettiva più profonda: la libertà di educare alla libertà.

Nella visione cristiana, la verità non è un insieme di nozioni astratte, ma una Persona che porta con sé un mondo – un mondo divino fatto umano – e la riconosciamo proprio dal fatto che libera le vite. Il nostro compito come educatori cattolici non è quindi imporre certezze, ma coltivare libertà autentiche. Come ci ricorda san Paolo nella lettera ai Galati: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” (Gal 5,1).

La vera educazione non crea dipendenze, ma genera autonomia relazionale; non impone modelli, ma risveglia vocazioni; non sequestra il desiderio, ma lo orienta verso la sua pienezza. In concreto occorre interrogarsi attorno a tre questioni: che cosa è la libertà? Che significa educare oggi? Come ci si educa alla libertà?

  1. Che cosa è la libertà?

La libertà che coltiviamo nelle nostre aule si articola in tre dimensioni fondamentali:

  1. Libertà-da: è la liberazione dalle costrizioni esterne, dalle oppressioni, dai pregiudizi che limitano. Quando aiutiamo uno studente a liberarsi da un’immagine negativa di sé, stiamo coltivando questa forma di libertà.
  2. Libertà-di: è l’autonomia di scegliere tra possibilità diverse, di esercitare la propria volontà. Quando mettiamo i nostri studenti di fronte a scelte significative, stiamo promuovendo questa capacità decisionale.
  3. Libertà-per: è forse la dimensione più profonda, la libertà che si realizza quando agiamo “volentieri”, quando riconosciamo un bene e lo perseguiamo con tutto noi stessi. Come la danzatrice che esegue la coreografia non per costrizione, ma perché vi trova la propria realizzazione.

Sarebbe ingenuo presentare la libertà solo come un dono luminoso privo di ombre. Come osservava Kierkegaard, “la possibilità della libertà si annuncia nell’angoscia”.

Quante volte abbiamo visto studenti paralizzati davanti alla libertà di scelta? Il “peso della libertà” è reale e dobbiamo preparare i nostri ragazzi ad affrontarlo. La dimensione esistenziale dell’essere umano è quella dell’aut-aut: siamo continuamente chiamati a fare scelte, e ogni scelta esclude altre possibilità.

Educare alla libertà significa anche educare a questa responsabilità. In questo, il messaggio evangelico ci offre una prospettiva preziosa: la libertà autentica non è assenza di legami, ma capacità di far fiorire relazioni feconde, in cui ciascuna vita può essere pienamente sé stessa.

  1. Che significa educare oggi?

In un’epoca in cui il futuro appare spesso minaccioso più che promettente, educare alla speranza diventa una dimensione imprescindibile. Come osserva Marc Augé, il nostro tempo tende a collocarsi “fuori dalla storia”, in un eterno presente senza direzione. La speranza, come ci ricorda Charles Péguy, è come “una bambina da nulla” che spesso passa inosservata, ma che in realtà sostiene la fede e l’amore. È un sentimento degli inizi, di breve memoria e con poca esperienza, eppure è una forma di sapienza preziosa perché ci insegna che non tutto è perduto.

La speranza che siamo chiamati a coltivare nei nostri studenti:

  1. È una disciplina dello sguardo che sa vedere “varchi” anche nelle circostanze più difficili.
  2. È una resistenza attiva alla cultura della rassegnazione.
  3. È una consapevolezza critica che sa distinguere tra ciò che è inevitabile e ciò che può essere cambiato.
  4. È un’etica dell’intelligenza che usa le potenzialità tecnologiche per il bene comune, senza spegnere la lucidità dell’interpretazione.

La speranza cristiana aggiunge a tutto questo una dimensione ulteriore: la fiducia che il male può essere vinto sia sul versante storico che su quello escatologico. Come scriveva Walter Benjamin: “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”. La nostra speranza può prendere il posto di quella degli altri quando è esaurita.

Un aspetto spesso sottovalutato nei nostri discorsi educativi è il legame tra libertà e vulnerabilità. La nostra cultura celebra la forza, l’autonomia, il controllo, mentre rimuove la nostra costitutiva fragilità.

Eppure, riconoscere la propria vulnerabilità è condizione necessaria per una libertà autentica. La vulnerabilità non è debolezza, ma apertura all’altro, disponibilità alla relazione, consapevolezza dei propri limiti.

Rimuovere la fragilità genera violenza, come nel bullismo che nasce da cuori che non sanno abbracciare le proprie crepe. La vera pace non è assenza di tempesta, ma capacità di stare insieme nonostante le differenze.

Il messaggio evangelico ci mostra un Dio che si fa vulnerabile in Cristo, scegliendo liberamente di condividere la nostra condizione umana. Questa scelta divina ci ricorda che la vulnerabilità non è un limite da superare, ma una dimensione essenziale dell’essere umano.

La storia del gabbiano Jonathan Livingston illustra magnificamente il valore della differenza nella crescita della libertà. Jonathan sfida le convenzioni del suo stormo per esplorare nuove possibilità di volo. Viene esiliato, ma è proprio quella differenza che diventa seme di libertà per sé e potenzialmente per tutti i gabbiani.

Il racconto mostra una tensione feconda tra la realizzazione individuale e la responsabilità verso la comunità. Jonathan deve prima liberarsi dai vincoli dello stormo per scoprire il vero significato del volo, ma la sua libertà trova pieno compimento solo quando torna per condividerla con gli altri.

Quando Jonathan diventa maestro, comprende che la vera educazione non consiste nel creare discepoli a propria immagine, ma nell’aiutare ciascuno a scoprire la propria unicità: “Non credere a ciò che i tuoi occhi ti dicono. Tutto ciò che ti mostrano è limitazione. Guarda con la comprensione, scopri ciò che già sai, e troverai il modo di volare”.

Edgar Morin ci invita a distinguere tra razionalità e razionalizzazione. La razionalità si pone come una mente che si intreccia con la realtà, senza pretendere di obbligarla nelle sue credenze. La razionalizzazione, invece, rinchiude la realtà in un sistema coerente, scartando ciò che non rientra nel suo schema.

Pensare in modo complesso significa:

  • Riconoscere i limiti della nostra conoscenza
  • Abbracciare un approccio “et-et” piuttosto che “aut-aut”
  • Integrare ragione, emozioni, pulsioni e senso della comunità
  • Riconoscere le antinomie della natura umana e cercare la felicità come fecondità esistenziale da non consumare in autonomia ma dentro il proprio contesto affettivo, lavorativo, politico, ecclesiale, storico.

L’aula, con tutti i suoi limiti, rimane un luogo di possibilità. In quel campo di possibilità abbiamo l’opportunità di lavorare per la libertà.

Contro un’immagine astratta della libertà, dobbiamo ricordare che essa si radica nei corpi e nelle emozioni. “Il nostro corpo è esposto a una grammatica di desiderio che si trova già scritta quando viene al mondo”.

Le neuroscienze ci mostrano come la memoria affettiva inscritta nella carne preceda e condizioni la libertà cosciente. L’apprendimento non è mai puramente cognitivo, ma sempre intrecciato con emozioni e sensazioni corporee.

“Desiderare è il verbo della vita perché è il desiderio a generare e a sostenere il nostro divenire”. La sfida educativa è “prendersi cura del desiderio”, risvegliarlo quando è sopito, orientarlo quando è disperso, nutrirlo quando è affamato.

  1. Come ci si educa alla libertà?

Il nostro ruolo: accompagnare senza dominare. Natalia Ginzburg ci offre una risposta illuminante sul nostro ruolo di educatori: dobbiamo essere importanti per coloro che ci sono affidati come studenti e studentesse, «e tuttavia non troppo importanti».

È un equilibrio delicato: essere presenti senza dominare, offrire una guida senza imporre una direzione, testimoniare che il male è attraversabile ma non pretendere imitazione. La libertà dei nostri giovani non è un nostro prodotto, ma un processo che possiamo solo accompagnare e facilitare.

Come educatori, siamo più simili a dei giardinieri che a dei costruttori: possiamo creare le condizioni favorevoli, ma è la pianta stessa che deve crescere secondo la propria natura.

«Un’imbarcazione è più sicura quando si trova nel porto; tuttavia non è per questo che le barche sono state costruite».

Educare alla libertà e alla speranza implica sempre un rischio. È più facile trasmettere certezze che insegnare a navigare nell’incertezza. È più comodo imporre regole che aiutare a scoprire principi. È più rassicurante controllare che lasciar andare.

Ma se vogliamo davvero essere educatori autentici, dobbiamo avere il coraggio di affrontare questo rischio. I nostri studenti, come le barche, non sono fatti per restare in porto, ma per navigare in mare aperto.

La nostra missione come educatori ispirati al Vangelo è testimoniare che un altro mondo è possibile, anche quando tutto sembra spingere alla rassegnazione. Come nella storia di Nicodemo, tutto può sempre accadere, anche quando il buio della notte sembra inghiottire ogni speranza.

Con la nostra passione educativa ispirata al Vangelo come verità liberante, possiamo offrire ai nostri studenti non un porto sicuro, ma la bussola, le stelle e, soprattutto, il coraggio per intraprendere il viaggio della libertà e della speranza. Un viaggio che, come per ogni gabbiano che si rispetti, non può che essere singolare e inconfondibile.

All’inizio della lettera Sulla luce c’è una citazione de Il piccolo principe, che ben riassume l’idea che la libertà di educare è educarci alla libertà e al desiderio di liberare le vite affinché fioriscano e collaborino a un progetto di pace, di giustizia e di solidarietà, lavorando insieme:

Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave” (Antoine de Saint-Exupery, Il piccolo principe, 1943)

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