Allegato: Ordinazione presbiterale don Riccardo Pettene
IV domenica di Pasqua 2025
Ordinazione presbiterale don Riccardo Pettene
(At 13,14.43-52; Sal 99; Ap 7,9.14b17; Gv 10,27-30)
Cattedrale di Verona, sabato 10 maggio 2025
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Gesù evidenzia diverse caratteristiche del buon pastore che è poi Lui stesso. Tra queste colpisce, in primo luogo, il riferimento alla sua voce. Infatti, come un cane si orienta con l’odore, le pecore si orientano con la voce. Ma come è questa voce al punto che le pecore riconoscendola finiscono per seguire il pastore, senza incertezze? È una voce inconfondibile: non è aspra, ma nemmeno confusa; è chiara e insieme discreta. È la voce di colui che il testo dell’Apocalisse definisce così: “L’Agnello sarà il loro pastore”. Dunque, è la voce di uno che è insieme pastore e agnello, anzi è pastore proprio in quanto agnello. Non a caso, la forza del Messia, “il leone della tribù di Giuda” (Ap 5,5), si esprime paradossalmente nell’Agnello “ritto in piedi come ucciso”. La vera forza di chi governa consiste nell’assunzione cosciente della propria vulnerabilità e fragilità. Solo così anche il prete più che un leader o un superman, diventa un “guaritore ferito”. Caro don Riccardo, la voce si spegne quando non ci si mette alla scuola del buon pastore che, a differenza del mercenario che scappa, resta accanto, soprattutto laddove si tratta di correre dei rischi.
“Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Oltre alla voce, c’è la mano che identifica il buon pastore. La mano è “l’organo degli organi” (Aristotele) e pure uno dei primi strumenti di relazione. Entriamo nella vita grazie alle mani della madre che ci accolgono. Le mani sono anche strumento della mente, al punto che si parla coi gesti in un linguaggio universale. Le mani ci fanno entrare in contatto. Oggi, peraltro, in una cultura digitalizzata, dove siamo sempre connessi, ma spesso senza relazione, abbiamo ancor più bisogno delle mani. Caro don Riccardo, il prete non deve lasciarsi strappare nessuno dalla sua mano. Perché è un uomo che ha tatto e cerca il contatto. Senza questa attitudine si diventa presto un prete irrisolto e scontento.
“Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola”. Qui Gesù giunge al culmine della ri-velazione del buon pastore, lasciando intendere che alla fine la mano decisiva a cui affidarsi è quella di Dio. Per questo, il buon pastore fa spazio alla voce e alla mano di Dio a cui siamo tutti affidati. Qui si coglie l’invito, caro don Riccardo, a non dimenticare mai che il tuo ministero presbiterale troverà senso solo nella direzione di far spazio a Dio e quasi di scomparire perché ciò che resta è soltanto l’amore di Dio. Come ha detto proprio ieri nella sua prima omelia papa Leone XIV: “Un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: (è) sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo”.
