Intervento all’incontro dell’Ordine secolare carmelitano
Casa incontri di Roverè Veronese, sabato 23 agosto 2025
Il Vaticano II, grazie ad Apostolicam Actuositatem, ci consegna un principio che segna l’ormai netta presa di distanza dal pre-concilio, quando afferma che “c’è nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione” (n. 2). Nessun cedimento dunque a dualismi o contrapposizioni anche di nuovo conio, come certo clericalismo o laicismo serpeggianti, ma la consapevolezza della destinazione comune del Vangelo che non ammette ulteriori dilazioni o, peggio ancora, contrapposizioni.
La mancanza di una parola univoca sul laico, la stessa preferenza del Vaticano II per una descrizione tipologica più che ontologica del laico, potrebbe indurre a ritenerne sfuocato il profilo, legittimando quel ricorrente pessimismo che ancora di recente fa dire che “occorre accelerare l’ora dei laici” (Card. Tettamanzi).
Preferisco, dunque, farmi ispirare dall’insieme degli elementi fin qui emersi per portare alla luce dell’identità del laico – segnata da una comune missione e da uno specifico elemento secolare – il suo ‘stile’ di cristiano. Ma come “abitare” la società e la Chiesa da laico oggi? Abitare, infatti, è una modalità di esistere che è tipicamente umana e ha a che fare con i significati (la verità, il senso) e con le relazioni, in una parola: con l’essere. Abitare infatti non è semplicemente risiedere; è qualcosa di più perché presuppone un rapporto consapevole e responsabile. Nel caso del cristiano laico abitare la storia di oggi, quella della Chiesa e quella del mondo, significa rivelare sé stesso rispetto a tre dimensioni. La prima è proprio il tempo e dunque la capacità del laico di attraversare le generazioni e non di bloccarsi in una di esse, rallentando il processo della trasmissione interpersonale e quello non meno importante della maturazione personale. C’è poi il culto, ossia il rapporto con una particolare modalità di vivere il tempo libero in rapporto al lavoro, così da farne uno spazio gratuito e non monetizzabile, dunque umanizzante. Infine c’è la politica, cioè la responsabilità verso gli altri che si esercita nei riguardi della società per confluire verso un bene che superi il semplice tornaconto personale.
Questi tre rapporti descrivono uno stile tipicamente laicale di vivere il cristianesimo oggi, da farne uno spartiacque per comprendere se il lievito evangelico fermenta la pasta del mondo oppure se esso è scipito e perde il suo sapore.
- Il rapporto con il tempo: lo stile generativo (martyria)
- Il rapporto con la vita: lo stile gratuito (leiturgia)
- Il rapporto con la storia: lo stile responsabile (diakonia)
Lo stile ‘generativo’ del laico, cioè della martyria
La testimonianza laicale oggi più che mai necessaria è quella anzitutto di attraversare il tempo, legando tra loro le generazioni che si succedono.
La riflessione di R. Guardini sulle età della vita è preziosissima per il nostro presente: “In verità, ogni ora, ogni giorno, ogni anno sono vive fasi della nostra esistenza concreta; ciascuna di esse accade una volta sola, venendo a costituire, nella totalità dell’esistenza, una parte che non si lascia scambiare con altre”. La percezione dell’irripetibilità del vivere suscita in molti un senso di oppressione e di disincanto perché nulla che è passato ri-torna; oppure ci regala il senso della preziosità, vitalità e irrinunciabilità di ogni attimo dell’esistenza. Il problema è che oggi la nostra cultura tende a fissarsi in una fase, solitamente la giovinezza quando non l’adolescenza, e non riesce ad andare oltre questa “sindrome di Peter Pan”. La stessa incertezza educativa si spiega come una sorta di invidia sottile del tempo che fu piuttosto che di aperta simpatia per i giovani che sono. È evidente che se tutti segretamente aspirano a vivere da giovani, perché mai questi dovrebbero darsi da fare per crescere? Ma c’è di più. Anche sul piano della fede il tempo segna di sé profondamente l’esperienza umana. In particolare nel cristianesimo l’età è un fattore decisivo e ben si comprende dalla centralità dei rituali di passaggio che accentuano la vita familiare: il battesimo in età infantile, i diversi “riti di passaggio”, il matrimonio, la malattia e la morte.
Un atteggiamento sano è in grado di integrare le diverse stagioni (infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta, vecchiaia) senza rimpianti e senza pretese. Infatti “tra una fase e l’altra si situano delle crisi tipiche: tra l’infanzia e l’adolescenza c’è la crisi della pubertà…, tra l’adolescenza e l’età adulta c’è la crisi dell’esperienza…, tra l’età adulta e la maturità si va in crisi accorgendosi dei propri limiti…, tra la maturità e la vecchiaia c’è la crisi del distacco”. Come puntualizza sempre Guardini, “ogni fase è qualcosa di peculiare, che non si lascia dedurre né da quella precedente, né da quella seguente. D’altra parte, tuttavia, ogni fase è inserita nella totalità e ottiene il proprio senso soltanto se i suoi effetti si ripercuotono realmente sulla totalità della vita”.
I laici, oggi, possono testimoniare la fiducia nella vita e contribuire in modo “contagioso” ad accrescere la speranza anziché il cinismo, il disincanto, la disperazione: anche tra i laici “incontriamo infatti persone capaci di illuminare con la loro sola presenza perché in esse pensieri, parole e azioni concordano in modo assoluto in una specie di semplicità di coscienza, che i Vangeli definiscono come ‘sì è sì’ e ‘no è no’”.
Lo stile ‘ozioso’ del laico, cioè della leiturgia
“Liturgia” significa originariamente “servizio reso al popolo, alla comunità”. Mentre nella Chiesa il termine indica il servizio sacerdotale in generale, e il rito in particolare, nella vita laicale un ambito privilegiato di questo servizio è senza dubbio il lavoro, per quanto oggi in pericolosa caduta libera. Proprio questa difficoltà epocale – per effetto della globalizzazione – conferma che si tratta della realtà decisamente più influente nella modernità e la struttura portante dei processi di integrazione. L’essere senza lavoro oltre che una tragedia economica è ancor prima una disgregazione personale e addirittura una causa di morte anticipata, come nel caso di molti pensionati.
Proprio questa centralità del lavoro che struttura l’ethos della vita moderna, scandita dal modo di produzione capitalistica e dalla cultura collettiva ad essa afferente, è messa radicalmente in discussione da quello che gli antichi definivano l’otium, se è vero come scrive Aristotele che “noi siamo operosi per avere otium”. Ma che vuol dire lavorare per avere l’otium, visto che la nostra civiltà efficiente sembra piuttosto centrata su un’altra logica che è precisamente quella di vivere per lavorare?
L’otium è possibile solo quando l’uomo è in armonia con sé stesso, quando aderisce al proprio essere. Non sono sufficienti al riguardo le condizioni esteriori come la sosta nel lavoro, le ore libere, le ferie. L’otium è uno stato dello spirito. Ed è proprio in questo atteggiamento spirituale l’esatta antitesi al mito del lavoratore che oggi si trasforma ben presto in quello del perfetto consumatore.
Giova allora richiamare i tratti di questo specifico stato spirituale a cui il laico cristiano tende nell’alternarsi di lavoro e tempo libero.
Anzitutto se il lavoro è attività, “l’otium è l’atteggiamento di non attività, di quiete intima, di riposo, del lasciar accadere del silenzio”. Solo in questo tacito atteggiamento di distensione spirituale può essere dato all’uomo di sperimentare ciò che il mondo racchiude nelle profondità.
Se il lavoro è fatica, l’otium è uno stato di contemplazione riposante, che però si lega alla festa. È la festa la sorgente di tutto. Come a dire che solo il carattere festivo conferisce all’otium non solo di essere immune dalla fatica, ma di essere l’antitesi stessa della fatica.
Infine se il lavoro ha una funzione sociale, l’otium è di ordine superiore alla vita activa, in altre parole “l’otium non ha per scopo primario di far sì che il funzionario ‘funzioni’ quanto più possibile, ininterrottamente e senza rallentamenti; ma piuttosto tende a far sì che il funzionario permanga ‘uomo’. …L’otium è una facoltà rigenerante delle potenze dell’essere”.
Si può ritenere che il nucleo dell’otium è l’atteggiamento festivo, il far festa. In essa si sintetizzano i tre elementi evocati: la distensione, l’assenza di fatica, l’eccellenza della funzione del procurarsi otium. Ma, a ben guardare, la radice della festa è e resta sempre il culto. Non c’è festa che non sia nata dal culto e che non conservi il suo carattere festivo perché continua a ricevere vita dal culto.
Lo stile ‘politico’ del laico, cioè della diakonia
Dopo aver colto prima la “testimonianza” e poi il “sacerdozio” del fedele laico, l’ultimo rapporto da investigare è quello con un altro tipo di “servizio” (diakonia significa appunto servizio, più come amministrazione che come culto). Una “regalità” dunque che ha a che fare con la politica più che con il potere, in senso stretto. Fermo restando che “l’impegno nel permeare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui uno vive, è un compito e un obbligo talmente proprio dei laici, che nessun altro può mai debitamente compierlo al loro posto” (AA, 13), resta da interpretare come si realizzi questo esplicito mandato, evitando cortocircuiti di vario genere, come il clericalismo o il laicismo.
Oltre il clericalismo significa ricordare che i laici sono “ministri della sapienza cristiana” (AA, 14). A questo proposito ancor più esplicita è la Gaudium et spes: “Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero” (GS, 43).
Oltre il laicismo occorre ritrovare la percezione che la legittima autonomia delle realtà create (cfr. GS, 36) non introduce in un relativismo assoluto e che la distinzione necessaria tra il cielo e la terra non equivale a una divaricante separazione.
La categoria da riscoprire è quella della creazione che nel racconto biblico equivale per un verso alla desacralizzazione del cosmo, ma per un altro alla sua valorizzazione in quanto realtà naturale. Questo rispetto per la sfera creaturale non va confuso con il dualismo tra sacro e profano, puro ed impuro di molte tradizioni religiose. Sarà il Maestro a far saltare questa contrapposizione manichea, aprendo lo spazio alla libertà e alla responsabilità umana. Peraltro il superamento del dualismo in nome dell’unità del Dio creatore non fa precipitare tutto in una indistinta nebulosa unitaria, ma implica il rispetto dei piani e degli ambiti in cui la vita umana si articola. Da questo punto di vista, l’affermazione “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,25) non può passare inosservata. Essa costituisce una netta replica a una domanda insidiosa che tende a fare una scelta tra due posizioni totalitarie ed entrambe non laiche: quella ebraica, in cui la religione assorbiva in sé la politica, e quella romana, per cui la politica assorbiva in sé la religione. Cristo le respinge entrambe con la sua risposta. La religione non deve più negare il suo spazio autonomo alla politica e reciprocamente quest’ultima non ha bisogno, per vedersi riconosciuta, di negare alla religione la sua peculiare trascendenza.