Solennità di tutti i Santi 2025
(Ap 7,2-4.9-14; Sal 24; 1 Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a)
Cattedrale di Verona, sabato 1° novembre 2025
“Allora aprì la sua bocca per ammaestrarli dicendo: Beati”. Quando esclamiamo “beato te!” vogliamo fare un complimento, non senza un pizzico di invidia. Gesù quando parla della felicità, lo fa a partire da una serie di situazioni concrete una più paradossale dell’altra. “Felice”, del resto, è termine che viene da lontano, dal greco physis che vuol dire natura ed indica ciò che genera. Chi è beato, cioè felice? Colui la cui vita è feconda e non sterile, porta frutto e, soprattutto, sprizza gioia, fuori-esce, cioè fiorisce. Il beato è con-tento, perché nella sua vita tutto si tiene armonicamente. Ma come è possibile tutto questo, considerando che Gesù dichiara beato chi è povero, chi è afflitto, chi ha fame e sete della giustizia, chi è misericordioso, chi è puro di cuore, chi opera per la pace, chi è perseguitato per la giustizia? Mentre – stando alle rilevazioni – le principali fonti della felicità sono la salute e il benessere fisico, il rapporto col partner, il successo, l’autoaffermazione? Ci sono almeno tre spunti che si ricavano dalle beatitudini per arrivare ad una esperienza di felicità realistica e non ingenua, della serie “… e vissero felici e contenti”.
Il primo è lo scarto tra l’esibizione e la realtà. Beati sono quelli che non puntano sulle apparenze, che scommettono non sul personaggio ma sulla persona. Il violento, il potente, lo spavaldo, il furbo fanno leva sempre e solo su quello che possono sfoggiare. Invece il beato, ancorché povero, afflitto, mite, indifeso fa leva su quel che è. Oggi la felicità è più rara perché abbiamo scambiato la vita per una serie di prestazioni sempre più performanti, mentre è un’esperienza da vivere tra alti e bassi.
Il secondo è lo scarto tra l’individuo e gli altri. Noi siamo messi per stare al mondo e non all’angolo. Insomma, non si sta bene quando ci isoliamo in campane di vetro insonorizzate e chiuse, lasciando che gli altri vadano alla malora. Pensare che quando sto bene io stanno bene tutti è un colossale equivoco che non ci porta alla felicità. “Siamo nell’epoca delle macchine celibi” (Giaccardi-Magatti). La via di uscita sta nel recuperare ciò che la modernità ha emarginato: il dialogo, il pensiero, lo spirito. Perché la felicità non è celibe (e neanche la libertà).
Infine, il terzo spunto è che esiste “una ricompensa nei cieli”, cioè si dà possibilmente una prospettiva che riscatta anche il non-senso di quaggiù dentro una speranza più grande. Non si spiega la vita solo a partire da qui. Certo noi non abbiamo altro modo di percepire la realtà che da qui. Ma basta vedere la Terra dall’alto per scoprirla come una pallina immersa nel blu. Si dà una dimensione ulteriore di pienezza che fa sentire questa vita come la terra in cui il seme si immerge per rinascere spiga di grano. “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto”, dichiarava san Francesco. Così vogliamo credere e sperare cantando: “Oh when the Saints go marching in… Sì, io voglio essere in quello spettacolo!”
