La lettera del nostro vescovo Pompili Sul limite mi ha coinvolta, non solo spiritualmente. Le sue riflessioni spiegano molto riguardo alla nostra società ed economia, che allontanano o rimuovono l’esistenza dei limiti e delle fragilità nelle nostre vite. Non possiamo mitizzare il passato, ma è evidente che lo stile di vita e la modalità di lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto erano basati su ritmi e valori molto diversi dai nostri attuali. La “sapienza del limite”, così come la coscienza della presenza di Dio nelle vite umane, e l’accettazione dell’idea della morte, caratterizzavano la società di allora. L’economia e l’organizzazione del lavoro si sono evolute molto più lentamente, per secoli, rispetto agli ultimi decenni, in cui i cambiamenti si sono accelerati, a causa della globalizzazione, ed è prevedibile che le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale impatteranno ulteriormente.
Condivido in pieno i contenuti della lettera: siamo parte di una “cultura della performance”, “che promette tutto subito e che pretende efficienza a ogni costo”. Ho lavorato come imprenditrice per tutta la vita e sono cosciente che lo sviluppo delle nostre aziende seguiva dinamiche diverse in passato, quando l’economia era meno finanziarizzata e il legame con i collaboratori e col territorio era, in genere, più presente. Riguardo alle promesse di successo nel breve, penso che i social media e le illusioni generate dalle start-up, oltre che dalle criptovalute, non aiutino certo a riconoscere il valore della lentezza e del limite.
Non credo che questo problema riguardi solo le generazioni più giovani: anche coloro che hanno più di cinquant’anni (i cosiddetti boomers) non sono sempre disponibili ad accettare l’idea di invecchiare, o più in generale, ad accogliere i propri limiti… Penso che una riflessione sulla nostra esistenza e sulla trasformazione dei limiti da problemi a opportunità di crescita sia un passaggio fondamentale, addirittura “un’opera quasi rivoluzionaria”. Un dialogo su questo tema dovrebbe coinvolgere sia i credenti che coloro che non lo sono: tutti ne abbiamo bisogno, più che mai. Ho trascritto queste parole da un’intervista del nostro vescovo: “Ripartire dal limite significa ritrovare la condizione per poter crescere non in modo chiuso e autosufficiente, ma in relazione con gli altri”. E la relazione con gli altri sarà il fattore fondamentale per ricostruire imprese più umane e responsabili socialmente.
Posso testimoniare, in base a ciò che ho vissuto, che il mio sguardo sulla realtà è cambiato solo quando sono stata in grado di “attraversare i miei limiti”, riconoscendo le mie sconfitte, o vivendo passaggi di vita in cui non ero in grado di conseguire ciò che avrei desiderato. Mi sono resa conto, solo in seguito, di quanto io mi fossi abituata a credere di poter arrivare a realizzare ciò in cui credevo, lottando per arrivarci: era accaduto, fino ad allora, sia riguardo al lavoro, che alla vita familiare, che ai diversi aspetti dell’esistenza. La mia arroganza coesisteva con una fede priva di umiltà, probabilmente immatura o superficiale. Solo quando ho sperimentato realmente la fragilità, mi è stato possibile cominciare ad “aprirmi all’Infinito che ci abita”.
Il nostro mondo considera tutti i limiti improduttivi, oltre ad averne paura, “ma il limite è vita. È la forma che permette all’essere di esistere e di elaborare il dolore. Senza limite… non c’è riconoscimento, non c’è amore possibile”. Ogni giorno, incontrando le persone, anche in ambito professionale, sperimento la verità e la bellezza della condivisione umana, che supera i ruoli sociali e non teme di accogliere o esporre i nostri limiti: “Sciolto nelle sue pretese di onnipotenza, il soggetto può rinascere come spazio ospitale”. È un cammino di scoperte umane e di vita.
Marina Salamon
