La vita ci mette a confronto con numerosi limiti e molteplici aspetti del limite. È così per ogni uomo e donna, anche per chi si professa cristiano. Lo spunto che proponiamo proviene da un’osservazione del “simbolo della fede” cristiana, che tra i primi attributi di Dio pone l’onnipotenza. Tale caratteristica è opposta a quella della creatura, fatalmente limitata nelle sue possibilità. Se quest’ultima pretendesse di affrancarsi dal limite, oserebbe un’evasione dalla realtà che qualificheremmo come delirio di onnipotenza. Ma anche rinunciando a raggiungere la perfezione divina, pensata in termini di abolizione di ogni limite, rimane l’interrogativo su come, credendo in Dio, un essere limitato si possa rapportare a Lui e alla sua onnipotenza. E la domanda conduce a indagare sulla stessa onnipotenza, se non la si vuole sbrigativamente ridurre ad una proiezione rovesciata della condizione umana, che rimuove dall’idea di Dio ogni limite, inteso solo negativamente come ostacolo che blocca. Non è questa la sede per ricostruire l’itinerario che la storia della teologia, con modelli e paradigmi diversi, ha percorso attorno a tale questione.
La riflessione recente ci offre alcune sollecitazioni ad assumere una postura adeguata al nostro tempo. È probabilmente superfluo insistere su acquisizioni che sono auspicabilmente consolidate per i credenti. Il rapporto con l’Onnipotente non è, cioè, declinabile in termini di sottomissione servile, né di ricorso infantile a chi “può” ciò che a noi non è dato di realizzare. L’umanità lotta giustamente per oltrepassare i limiti finora sperimentati e le sue conquiste costituiscono un guadagno per tutti. Appartiene altresì all’esperienza umana condivisa il fatto che il limite segnala anche una soglia che prelude ad un “oltre”, non solo nel senso di un superamento dell’ostacolo, ma anche nel senso di un’apertura, del possibile affacciarsi di un altro/a, che si fa prossimo e che rende significativo il nostro abitare il limite.
La lotta contro il limite e la solidarietà con chi lo patisce esprimono la qualità delle relazioni autentiche, imprescindibile per chi si professa credente. Il riferimento di quest’ultimo all’Onnipotente si configura in termini di affidamento, che diventa prossimità dando credito alla sua Parola senza protestare la propria impotenza come alibi per abdicare alla responsabilità. E l’onnipotenza riconosciuta dalla fede non è dispotica e capricciosa, ma vitale e promotiva. Il “Padre onnipotente”, che ci ha posti in essere come persone libere, è il Padre che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti facendo così i conti con la storia del male, momento drammatico del limite umano. Egli manifesta la sua “onnipotenza soprattutto nella grazia del perdono” (dalla Liturgia). Nella croce si è schierato dalla parte degli sconfitti della storia e con la risurrezione ha pronunciato la parola definitivamente vittoriosa del suo amore per il mondo. Nella vicenda di Gesù la vita di Dio appare come incessante comunione d’amore tra persone che vivono un’unità totale senza alcuna invadenza.
L’onnipotenza non abolisce la soglia, ma sostiene il reciproco dono. A sua volta il credente non sperimenta tale onnipotenza come oppressione, ma come solidarietà che responsabilizza. Ecco perché crede in Dio onnipotente non colui che conta su interventi divini risolutori, ma chi confida nel Padre anche nelle avversità, senza temere la forza del male, né piegarsi ai signori di questo mondo, perché uno solo è il Padre onnipotente.
don Giovanni Girardi,
teologo