XXX per annum 2025 – Ingresso don Alberto Malaffo a Balconi
(Sir 35,15b-17.20-22a; Sal 34; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14)
Balconi, domenica 26 ottobre 2025
“Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Ancora una volta il Maestro si mette a raccontare. Questa volta racconta di due uomini che salgono al tempio a pregare: il primo è un fariseo, il secondo un pubblicano. I due sono diversi nel modo di pregare. Il fariseo sta in piedi, e prega sottovoce, dicendo grazie per essere un ‘separato’, cioè lontano dal peccato. Si badi che il fariseo non è banalmente un incoerente, che dice ma non fa. Egli esegue puntualmente quanto prescritto e fa anche di più rispetto alla Legge. Non digiuna una volta all’anno, ma due volte alla settimana. Non paga le tasse solo per sé, ma anche per il venditore che magari non le ha pagate. Dove è allora il problema? Sta nel fatto che usa la preghiera come lo specchio magico della strega di Biancaneve. Per sentirsi dire che è il più bello del reame. E finisce per sostituire Dio con il proprio Io. L’errore sta nel confronto che il fariseo istituisce tra sé e gli altri invece che con Dio, quando afferma: “Non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”.
E il pubblicano? Si tratta, beninteso, di un essere spregevole che fa la cresta alle tasse, un amico degli infami Romani, che sfrutta la povera gente, odiatissimo da tutti. Il pubblicano non entra nel tempio, se ne sta all’esterno e più che pregare grida verso l’alto: “Non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto”. Non si può dire che sia uno stinco di santo, anzi è un corrotto, per sua stessa ammissione: “O Dio, abbi pietà di me (che sono il) peccatore”. Ma si rivolge a un Tu e questa è la sua fortuna perché non dovendo difendere la sua immagine finisce per riconoscersi nella verità. Il pubblicano non è solo sincero, come il fariseo che dice quel che crede e sente, ma è pure veritiero.
È per questo che Gesù spiazza tutti e conclude: “Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. La preghiera richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, povertà e piccolezza, all’humus da cui siamo fatti. Pregare è accettare il confronto con Dio che è l’unico liberante e autentico. E ci fa uscire dall’esasperazione del nostro io. Di fronte agli altri si può recitare. Se rubi e hai buoni avvocati puoi farla franca. Ma davanti a Dio no. Ecco perché molti disertano la preghiera, perché costringe ad una verità che spesso fuggiamo. Auguro a questa comunità che vede il passaggio del parroco, da don Lorenzo al più giovane don Alberto, di non perder troppo tempo davanti allo specchio delle vostre brame, ma a diventare veri. Dove c’è umiltà, infatti, c’è apertura alla grazia. Per contro, dove c’è senso di superiorità resta soltanto il disprezzo degli altri. O meglio, chi è umile ha il coraggio di non nascondersi. L’autoesaltazione è la paura mascherata da forza.
