L’amore vero non nasce dal calcolo – Veglia per la nuova Santa Vincenza Maria Poloni 

Veglia per la nuova Santa Vincenza Maria Poloni
(1Gv 4,9-10; Mc 6,34-36; 2Cor 1,3-4)
Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, sabato 18 ottobre 2025

Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi”. Così abbiamo ascoltato nella prima delle tre pagine proclamate. Luigia Poloni – questo il nome che le diedero al battesimo – non era destinata alla grandezza secondo i criteri del mondo. Ultima di dodici figli, nove dei quali morti prima di lei. Non era situazione rara a quei tempi, ma il dato non va trascurato. Pensiamo a che cosa può significare crescere in una casa dove il lutto è inquilino fisso, dove ogni culla può diventare bara. Molte persone oggi nel mondo purtroppo lo sanno bene. Eppure, proprio questa familiarità precoce con la fragilità umana le insegnò qualcosa di prezioso: che l’amore vero non nasce dal calcolo, ma dall’essere stati amati quando non avevamo nulla da offrire. A trentotto anni – un’età in cui nell’Ottocento una donna avrebbe già dovuto avere una famiglia o una vita religiosa matura – Luigia fece qualcosa di imprevisto: lasciò la sicurezza della casa paterna per fondare le Sorelle della Misericordia. In realtà non fu un colpo di testa autoreferenziale, ma il lento germogliare di un desiderio e di una vocazione profonda condivisa con don Carlo Steeb, che l’aveva accompagnata fino a lì per sei lunghi anni. Tra loro, non era la solita dinamica a cui la storia ci ha troppo spesso abituato: religiosa sottomessa, prete che comanda. Tra loro c’era una consonanza straordinaria, un rispetto delle reciproche autonomie. Un testimone li descrisse poeticamente: “Due rivi che mettono in un sol fiume”. Non uno che assorbe l’altro, ma due correnti che si uniscono mantenendo la propria forza. Luigia Poloni aveva una personalità definita, un’esperienza solida, una maturità che le permetteva di prendere decisioni autonome. In un’epoca in cui le donne nella Chiesa erano relegate a ruoli decorativi o servili, Vincenza Maria Poloni ci mostra un’altra strada: la collaborazione feconda basata sulla reciprocità. E don Carlo lo aveva capito: in lei vedeva non un’esecutrice, ma “l’incarnazione più fedele dello spirito” dell’Istituto.

Il Vangelo di Marco (Mc 6,34-36), che abbiamo appena letto, ci mostra Gesù che ha compassione della folla affamata e disorientata. Ma attenzione: non distribuisce solo pane. Insegna. Perché? Perché sapeva che l’elemosina senza dignità umilia, mentre la parola che accompagna il gesto restituisce la persona a sé stessa. Vincenza aveva capito questa lezione. La sua non era beneficenza dall’alto in basso, quella che ti dà il pane ma ti toglie la voce. Era una misericordia intelligente e relazionale, che mentre curava il corpo si preoccupava di risvegliare i sogni. Le testimonianze parlano di come unisse “alle cure delicate il sostegno morale” – tradotto: mentre ti medicava la ferita, ti ricordava che valevi qualcosa, che la tua storia contava, che il futuro era ancora possibile.

San Paolo dice che Dio “ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione” (cfr. 2Cor 1,3-4). È la circolarità della consolazione: solo chi è stato consolato sa consolare davvero. Vincenza Maria Poloni aveva sviluppato una capacità di tenerezza che stupiva tutti. Non quella tenerezza melensa che ci commuove e che finisce subito quando le lacrime si asciugano, ma quella stabile e solida che sa stare accanto al dolore senza fuggire.

Nell’estate del 1855, ultima epidemia di colera, le suore le si gettarono ai piedi chiedendo di poter assistere i malati. Lei “ne andò santamente lieta”. Lieta! Le madri inevitabilmente tendono a proteggere coloro che hanno messo al mondo, ma di fronte al fuoco della carità l’amore vero cede, lascia essere, si affida. La gioia è sempre gioia della trasmissione e per lei cogliere i segni di un carisma collettivo e condiviso era dono puro.  Il suo testamento è di una semplicità disarmante: “Vi raccomando una sola cosa, la carità. Finché durerà la carità, l’Istituto si manterrà in piedi”. Non regole, non strutture, non potere. Carità. Amore concreto. Il resto è dettaglio.

Il dottor Turri, che la conobbe, sintetizzò così: “Ella nacque, amò, morì. Altro non seppe che questa grandezza dell’amore”. In un mondo che ci insegna a nascere per consumare, amare per possedere, morire dimenticati, Vincenza ci ricorda un’altra possibilità: nascere per servire, amare per liberare, morire generando vita. Non è un programma del passato. È la proposta più rivoluzionaria che possiamo fare anche oggi, ricordando donne come Vincenza Maria Poloni. Non senza far memoria a due passi dalla tomba di papa Francesco, il cui motto episcopale era “Miserando atque eligendo”. Proprio quello che Madre Vincenza ha vissuto e che lo stesso card. Bergoglio aveva conosciuto a Buenos Aires incontrando le Sorelle della Misericordia.

 

condividi su