Il limite come pedagogia
Giubileo diocesano degli insegnanti
Basilica di San Zeno Maggiore in Verona, lunedì 8 settembre 2025
LA CRISI DELLA GIOVENTÙ E LA SAPIENZA DEL LIMITE
I dati recenti sulla felicità giovanile rivelano una trasformazione epocale. La tradizionale curva a U del benessere emotivo nel corso della vita si è spezzata (prima tale benessere risultava alto in gioventù, in calo durante la mezza età e di nuovo in aumento dopo i 55 anni). Rispetto al 1993, i giovani sotto i 25 anni registrano livelli di infelicità raddoppiati per i maschi e triplicati per le femmine. Questa realtà interpella direttamente il nostro ruolo educativo e ci spinge a interrogarci sui fondamenti antropologici del nostro tempo.
La lettera pastorale Sul limite cerca di offrire una chiave interpretativa profonda per comprendere questa crisi e per ripensare il nostro approccio educativo. Il limite, lungi dall’essere un ostacolo alla realizzazione umana, si rivela come la condizione necessaria per una felicità autentica e duratura. Come ricorda Theodor Adorno, “niente può essere salvato, se non si trasforma”, passando anche per il rischio di finire. Questo principio si applica direttamente alla nostra pratica educativa: non si tratta di preservare forme tradizionali dell’insegnamento religioso, ma di permettere che attraversino la loro trasformazione per rinascere in modalità adeguate al tempo presente.
LA SOCIETÀ DELLA PERFORMANCE: QUANDO IL LIMITE DIVENTA NEMICO
Dal senso di colpa al senso di inadeguatezza
La nostra epoca ha operato una trasformazione antropologica sottile ma devastante. Da una società attenta agli elementi “verticali” (in tutti i sensi), siamo passati a una società orizzontale della prestazione che divide il mondo tra vincenti e perdenti. Questa mutazione ha conseguenze dirette sulla psiche giovanile.
Come osserva lo psicopedagogista Stefano Rossi, per i giovani non esiste più il “tribunale della colpa” di cui parlava Freud, ma “la lama del senso di inadeguatezza”. Il senso di colpa attaccava il sistema morale, il senso di inadeguatezza attacca l’autostima stessa. Le vite implodono. I nostri giovani vivono nel terrore di non essere mai abbastanza, in una condizione di competizione permanente che trasforma ogni limite in una sconfitta personale e dunque in ostacolo da rimuovere a tutti i costi. Questo lo respirano già da piccoli.
I social media e la tirannia delle metriche
I social network hanno amplificato questa dinamica attraverso il cosiddetto “modello delle metriche”. I giovani hanno interiorizzato che un messaggio, un’esperienza, una persona hanno valore solo in base ai like, ai views, ai follower ottenuti. Esistere significa essere riflessi nello sguardo degli sconosciuti e ogni mancanza di approvazione digitale frantuma l’autostima. Questa logica perverte la comprensione stessa del limite. Invece di essere riconosciuto come soglia di crescita, il limite diventa l’evidenza del proprio fallimento nel sistema della prestazione globale.
Non si creda che questo problema riguardi solo l’adolescenza: l’infanzia ne è già raggiunta, seppure in forme più mascherate.
L’INDIFFERENZA ADULTA: LA PERDITA COLLETTIVA DEL SENSO DEL LIMITE
L’anestesia della coscienza
Paradossalmente, mentre i giovani soffrono per una percezione distorta del limite, noi adulti abbiamo sviluppato una preoccupante indifferenza verso i limiti fondamentali dell’esistenza umana. Siamo diventati impermeabili alle guerre, alle ingiustizie, alle povertà, alle malattie che attraversano il nostro tempo. Rimuoviamo la morte in tutti i modi. Questa anestesia della coscienza rappresenta il rifiuto collettivo di riconoscere la nostra finitezza e vulnerabilità. Tutto questo ci impedisce la prossimità. Come educatrici ed educatori trasmettiamo inconsapevolmente questa disconnessione. Insegniamo ai giovani a ignorare la sofferenza del mondo mentre simultaneamente li esponiamo a una pressione prestazionale insostenibile. È una contraddizione che genera disorientamento esistenziale e che richiede una conversione profonda del nostro approccio pedagogico.
Il contrasto con il messaggio evangelico
Questa indifferenza si pone in netto contrasto con la sensibilità di Gesù, che si lasciava toccare dalla sofferenza altrui, che si fermava davanti ai limiti umani non per giudicare ma per accompagnare. Il Vangelo non presenta un Dio indifferente al dolore del mondo, ma un Dio che sceglie di abitare i nostri limiti per trasformarli in luoghi di grazia. Il cristianesimo si immerge inevitabilmente in una cultura ma per salvarla dall’interno. Questa consapevolezza dovrebbe spingerci a cercare Cristo dentro la realtà e dovrebbe condurci nei luoghi più inaspettati: nei margini, nelle voci che chiamano aiuto, negli stranieri in viaggio, nelle ferite che attendono guarigione. La perfezione richiesta dal Vangelo, in altri termini, non coincide con quella richiesta dalla nostra società dei consumi e delle guerre.
IL LIMITE COME CUSTODE DEL DESIDERIO
Oltre la logica della soddisfazione immediata
La cultura contemporanea ha pervertito la relazione tra desiderio e limite. Ha trasformato il limite da custode del desiderio a suo nemico. Questa inversione produce una paradossale povertà esistenziale: nel tentativo di rimuovere ogni ostacolo alla soddisfazione immediata, abbiamo impoverito la capacità stessa di desiderare. Il limite non è la morte del desiderio ma la condizione della sua piena riuscita. Come la siepe leopardiana che nasconde l’orizzonte per aprire spazi infiniti all’immaginazione, il limite custodisce il desiderio impedendogli di accontentarsi della prima cosa che passa o di conformarsi a ciò che tutti già vogliono. Come suggerisce Saint-Exupéry, nel brano riportato nella lettera Sul silenzio, prima di costruire una nave occorre risvegliare nelle persone la nostalgia del mare lontano e sconfinato.
La pedagogia del rinvio creativo
Nel contesto educativo, questo significa recuperare una “pedagogia del rinvio creativo”. Non si tratta di frustrare arbitrariamente i giovani, ma di aiutarli a riconoscere che l’attesa, il limite, la mediazione sono condizioni di maturazione del desiderio, non suoi impedimenti. Quando insegniamo ai nostri studenti a sostare sulla soglia, a non precipitarsi verso soluzioni immediate, li stiamo educando a una forma superiore di libertà. Li stiamo preparando a riconoscere che la felicità autentica non coincide con la soddisfazione immediata ma con la capacità di abitare creativamente la tensione tra il già e il non ancora.
L’ARTE DI ATTRAVERSARE IL DOLORE: DALL’INSICUREZZA ALL’INTRANQUILLITÀ
Dal fallimento alla trasformazione
Uno degli aspetti più drammatici della condizione giovanile contemporanea è l’incapacità di attraversare il dolore senza sentirsi sconfitti. I nostri studenti non hanno ricevuto gli strumenti per trasformare le ferite in feritoie di luce, per riconoscere nel fallimento un luogo di apprendimento piuttosto che di condanna. La storia biblica di Giacobbe offre un paradigma alternativo. Il patriarca impara a trasformare la lotta notturna in claudicanza, il limite vissuto come ostacolo in benedizione condivisa. La sua ferita diventa il sigillo di una nuova identità, più vera e più feconda.
Dall’ansia all’intranquillità creativa
La ricerca contemporanea suggerisce una distinzione fondamentale tra insicurezza passiva e “intranquillità” attiva (Benasayag). Non si tratta di cercare nuove sicurezze, ma di cambiare l’attitudine esistenziale verso l’incertezza. L’intranquillità trasforma la crisi in occasione di crescita, permettendo di abitare i processi nel loro divenire, con tutti gli sbilanciamenti necessari. Nel contesto educativo, questo significa insegnare alle nuove generazioni che non tutti i problemi hanno soluzioni immediate, che esistono domande da abitare piuttosto che risposte da trovare, che il “non sapere” può essere una forma più profonda di conoscenza. È l’arte del “dolce naufragare” leopardiano trasformata in metodologia didattica.
Il limite come sfida mortale: quando la soglia diventa abisso
Tuttavia, la capacità di trasformare l’ansia in intranquillità creativa spesso manca. In questo particolare momento storico il mondo della gratuità non è affatto accessibile. Per alcuni giovani la pressione prestazionale raggiunge livelli tali che il confronto con il limite diventa una sfida mortale. I dati sull’aumento dei suicidi giovanili, dei disturbi alimentari, dell’autolesionismo e dei comportamenti ad alto rischio testimoniano una deriva preoccupante della relazione con il limite stesso.
Il limite percepito come ostacolo alla realizzazione personale si trasforma in un campo di battaglia disseminato di patologie dell’anima. La cultura prestazionale genera in questi casi una pressione tale che la morte appare preferibile al fallimento. Il “senso di inadeguatezza” può raggiungere livelli insostenibili, dove l’unica via d’uscita percepita diventa l’interruzione definitiva del confronto con le aspettative.
Paradossalmente, molti comportamenti autodistruttivi rappresentano una ricerca disperata di limiti autentici in un mondo che ha perso la capacità di offrirli in forma educativa. Quando gli adulti non sanno più proporre limiti “buoni” – quelli che custodiscono e orientano la crescita – alcuni giovani cercano limiti “cattivi”, quelli che almeno hanno il merito di essere reali e tangibili, anche se distruttivi.
Gli insegnanti di religione, per la natura stessa della loro disciplina che tocca le domande esistenziali fondamentali, si trovano spesso in posizione privilegiata per riconoscere i segnali di una relazione patologica con il limite. L’isolamento sociale, l’ossessione per la perfezione, la verbalizzazione di sentimenti di inutilità, i riferimenti alla morte come soluzione, i cambiamenti drastici nel comportamento richiedono attenzione immediata e facilitazione dell’accesso a supporto professionale specializzato.
In questi casi, chi educa può offrire una presenza costante e non giudicante, testimoniando che anche nel buio più profondo la vita mantiene valore e dignità. Come ricorda la lettera pastorale, “se in quelle condizioni si resta ancora capaci di amare, nella vita ferita si forma una sorta di varco infinitesimamente piccolo ma estremamente prezioso”. Il messaggio evangelico offre risorse uniche: la proposta di una vita che trova significato non nella prestazione ma nell’amore ricevuto e donato, la promessa che nessuna esistenza è inutile, la speranza che anche le situazioni più buie possono essere attraversate e trasformate.
La pedagogia della resilienza evangelica
Come insegnanti di religione siamo chiamati a trasmettere una “pedagogia della resilienza evangelica” che non coincide con la retorica del “pensiero positivo” ma con la capacità di riconoscere la grazia anche nell’imperfezione, nella fragilità, nel limite.
Questo approccio non nega il dolore ma lo integra in una narrazione più ampia, che riconosce nella vulnerabilità umana non un difetto da nascondere ma il luogo privilegiato dell’incontro con Dio e con gli altri.
I LUOGHI INASPETTATI DEL SACRO: UNA NUOVA GEOGRAFIA SPIRITUALE
Oltre i confini tradizionali
Il Vangelo già documenta questa dinamica: Gesù si lascia interpellare dalla cananea, condivide la mensa con pubblicani e peccatori, benedice i bambini, non resta indifferente al tocco dell’emorroissa. Questi episodi indicano che Dio non rispetta i nostri confini tra sacro e profano, tra degno e indegno. Oggi questa lezione diventa ancora più urgente. Dobbiamo riconoscere il divino nelle voci che chiamano aiuto, negli stranieri in viaggio, nelle ferite che attendono guarigione, nei processi di liberazione da ingiustizie, nelle lacrime delle madri, nei luoghi pervasi dalla paura. Come suggerisce il mistico sufi Ramana Maharshi, se tutti sanno che la goccia si fonde nel mare, pochi comprendono che il mare è già contenuto nella goccia.
VERSO UN INSEGNAMENTO RELIGIOSO COME EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA
Dalla catechesi alla formazione civica
L’insegnamento della religione deve essere una formazione alla cittadinanza, deve far sentire le appartenenze a un mondo più grande rispetto a quello del proprio ego. Come ha scritto il vescovo Derio Olivero, si tratta di “educare cittadine e cittadini di questo mondo”, prima e anziché credenti di una chiesa. Ciò rappresenta un cambio di paradigma fondamentale per l’insegnamento della religione. Non si tratta di un’abdicazione rispetto alla testimonianza evangelica, ma di un modo nuovo per onorarla.
Formare cittadini adulti significa formare persone che non eviteranno il discorso religioso e che, qualunque sia la loro esperienza personale, si porranno la questione del sacro e vorranno conoscere le esperienze culturali, rituali e spirituali a questo collegate. L’ora di religione può trasformarsi in un momento di approfondimento culturale del mondo religioso umano, in tutte le sue declinazioni. Può essere il luogo in cui ci si domanda: 1. Che cosa è essenziale, che cosa vogliamo portare dal mondo vecchio nel mondo nuovo (A. Baricco)? 2. Come possiamo andare nella profondità delle esperienze più importanti? 3. Come possiamo valorizzare le differenze tra noi e con altri mondi e contesti?
LA METAFORA DEL NAUFRAGIO: SALVARE LE VITE, NON LA NAVE
La lezione di Atti 27
Il capitolo 27 degli Atti degli Apostoli racconta di un naufragio durante una tempesta. Paolo distingue chiaramente tre livelli di realtà: le vite, la nave e il carico. La sua promessa è cristallina: “nessun capello andrà perduto”, ma nessuna garanzia sulla nave e sul carico. Questa distinzione si applica direttamente al nostro contesto educativo. Le vite dei nostri studenti devono essere salvate sempre. Le strutture didattiche (la nave) e i contenuti specifici (il carico) possono essere sacrificati se necessario per la crescita delle persone. È una lezione di discernimento educativo: distinguere tra l’essenziale del messaggio evangelico e le forme storiche contingenti.
PROPOSTE OPERATIVE PER LA PRASSI EDUCATIVA
1. Privilegiare i processi rispetto ai risultati. Nel contesto scolastico, questo significa orientare la valutazione verso i processi di crescita piuttosto che verso i risultati immediati. Celebrare i piccoli passi, valorizzare la fedeltà quotidiana, accompagnare con pazienza i tempi di maturazione di ciascuna/o studente. La logica non è quella dell’efficienza produttiva ma della fecondità evangelica.
2. Coltivare l’arte dell’ascolto e dell’attenzione. Riprendendo l’indicazione della lettera pastorale, dobbiamo imparare a “pensare con” i giovani e non “sui” giovani. Questo richiede la creazione di spazi di autentico dialogo dove le loro domande esistenziali possano emergere ed essere prese sul serio. L’attenzione contemplativa, quella che sa sostare e riconoscere nel frammento l’universo, diventa metodologia didattica. Non l’attenzione frenetica dello schermo che tutto consuma, ma l’attenzione che sa aspettare, che sa riconoscere nel limite non un nemico ma un maestro.
3. Educare al discernimento interreligioso. Insegnare ai giovani a distinguere tra desideri autentici e bisogni indotti, tra felicità duratura e soddisfazione immediata, tra successo esteriore e realizzazione personale. Ma anche educarli a navigare la complessità religiosa contemporanea, riconoscendo nelle diverse tradizioni spirituali non minacce alla propria identità né paradisi eccentrici, ma buone occasioni di approfondimento.
4. Trasformare l’incertezza in risorsa. Sviluppare nelle vite giovani la capacità di trasformare l’ansia prestazionale in intranquillità creativa. Questo significa creare ambienti di apprendimento dove l’errore non sia penalizzato ma riconosciuto come parte necessaria del processo di crescita, dove l’incompletezza non sia vissuta come fallimento ma come condizione umana da abitare con dignità.
5. Promuovere esperienze di apprendimento e di attraversamento. L’apprendimento è un orizzonte complesso nel quale ci troviamo tutte e tutti, nelle nostre differenze personali e di ruolo. L’apprendimento, come direbbe Tim Ingold, è una condizione di “apertura al non posseduto”. È un atteggiamento di ricerca che dobbiamo condividere e che ci deve attraversare anche come insegnanti. Si tratta di accettare l’incompiutezza delle nostre vite e di trasformarla in spazio creativo. Apprendere significa stare in un mondo in cui si accetta l’incompiutezza, il non ancora, il non saputo, il seme che non è stato gettato. La conoscenza, allora, diventa un esercizio di attenzione continua. In questa forma di apertura al non posseduto, il limite si trasforma in soglia e in occasione di incontro con l’altro. Le esperienze di volontariato, di servizio ai più fragili, di impegno sociale permettono ai giovani di sperimentare concretamente come la propria vulnerabilità possa diventare risorsa per gli altri. Organizzare inoltre viaggi di studio, scambi culturali, esperienze di dialogo interreligioso che permettano agli studenti di attraversare i propri confini mentali e culturali, scoprendo che l’identità non si indebolisce nel confronto ma si arricchisce.
CONCLUSIONE: VERSO UNA SCUOLA DEL LIMITE ABITATO
La crisi della felicità giovanile ci interpella a ripensare radicalmente il nostro approccio educativo. Non possiamo più limitarci a trasmettere contenuti, dobbiamo formare persone capaci di abitare creativamente i propri limiti e di trasformare le ferite in benedizioni, in un contesto di apprendimento dove la formazione e l’educazione chiedono comunità, sinergie, scambio.
La scuola, e in particolare l’insegnamento della religione, può diventare un luogo privilegiato per questa “conversione pedagogica”. Non si tratta di tornare a modelli educativi autoritari del passato, ma di integrare la sensibilità contemporanea con la sapienza antica che riconosce nel limite non un nemico ma un maestro.
Questa generazione ha bisogno di adulti che non abbiano paura della fragilità, che sappiano sostare nelle domande senza precipitarsi verso risposte prefabbricate, che testimonino la possibilità di una felicità che non dipende dalla prestazione ma dalla capacità di accogliere la vita così come essa accade, nella consapevolezza che una meta non è mai il punto di arrivo, ma un punto di svolta. Solo così potremo aiutarla a fiorire, trasmettendo questa buona notizia: il senso di qualunque scelta, di qualunque viaggio non è il dove si arriva, ma il perché e il con chi si parte.
